Angolo medico-legale
In cosa si configura il “grave pericolo per la vita della donna”?
Il grave pericolo per la vita della donna può essere dato da processi patologici che costituiscano controindicazione alla prosecuzione della gravidanza, ovvero malattie di per se stesse fattori di rischio per aborto (quali ipertensione arteriosa grave, diabete, obesità, cardiopatia cianogena, anemia, abuso di alcool o sostanze stupefacenti, gestosi, carcinomi (utero, mammella, retto, stomaco) ecc.). Sono anche contemplate le malformazioni o patologie del feto, ma ciò non in senso eugenetico, ovvero solamente nel caso in cui la patologia fetale rappresenti rischio per la salute della donna. È qui importantissima una corretta diagnostica in ambito prenatale, in quanto alla donna deve essere dato poter conoscere le condizioni del nascituro al fine di preservare anche la sua stessa salute, ribadendo che il concetto di gravità è riferito alla donna e non all’anomalia o malformazione del nascituro: la Cassazione che si è pronunciata in materia ha affermato che “Proprio perché detto pericolo va valutato anche con riferimento alla salute psichica della donna e può essere determinato anche dalle rilevanti anomalie o malformazioni del feto, il che significa, ai fini della salute psichica, dalla conoscenza di queste affezioni del feto da parte della donna, assume particolare importanza che il medico, richiesto dalla gestante di essere informata delle risultanze di un’ecografia rivelatrice di gravi malformazioni del feto, adempia esattamente a detto suo obbligo di informazione” (Cass. 10.5.2002, n. 6735: Cass. 1.12.1998, n. 12195; Cass. Pen., Sez. VI, 18.4.1997, n. 3599). In ogni caso, accertata la patologia, non sono posti limiti temporali all’effettuazione dell’aborto: non vi deve essere il presupposto di un pericolo grave attuale: “il danno o il pericolo conseguente al protrarsi di una gravidanza può essere previsto ma non è sempre immediato” (Corte Costituzionale sentenza n. 27/1975). Il ruolo del medico che si occuperà della diagnosi prenatale è sancito dalla legge all’art. 7 e risulta di fondamentale importanza, anche da un punto di vista giudiziario: infatti i processi patologici vengono accertati e certificati da un medico del servizio ostetrico-ginecologico del presidio in questione (ove la donna ha scelto di effettuare la procedura, ma anche altrove), anche avvalendosi della collaborazione di altri specialisti; la legge prevede che debbano essere fornite la documentazione e la certificazione relative al direttore sanitario del presidio ospedaliero in questione. Una particolarità è data dal fatto che, se vi è pericolo imminente per la vita della donna, l’intervento può essere effettuato al di fuori delle sedi autorizzate a prescindere dalle procedure previste.
L’interruzione di gravidanza può essere effettuata oltre i 90 giorni?
All’art. 6 è prevista la disciplina dell’interruzione volontaria di gravidanza dopo i 90 giorni: “
L’interruzione volontaria della gravidanza, dopo i primi novanta giorni, può essere praticata:
a) quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna;
b) quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna”.
Ancora una volta la decisione è esclusivamente della donna e presuppone la volontarietà della scelta, ma deve sussistere un pericolo grave per la salute della stessa
Quali sono gli step successivi che la donna deve seguire per effettuare un’interruzione volontaria di gravidanza?
All’art. 5 della Legge 194/1978 è affermato: “Quando la donna si rivolge al medico di sua fiducia questi compie gli accertamenti sanitari necessari, nel rispetto della dignità e della libertà della donna; valuta con la donna stessa e con il padre del concepito, ove la donna lo consenta, nel rispetto della dignità e della riservatezza della donna e della persona indicata come padre del concepito, anche sulla base dell’esito degli accertamenti di cui sopra, le circostanze che la determinano a chiedere l’interruzione della gravidanza; la informa sui diritti a lei spettanti e sugli interventi di carattere sociale cui può fare ricorso, nonché sui consultori e le strutture socio-sanitarie […]”
La madre deve essere resa capace di una scelta informata e intelligente, devono pertanto esserle fornite informazioni dettagliate circa:
• la procedura abortiva;
• i rischi;
• i diritti (compresi riservatezza e segreto professionale) e le garanzie riconosciuti dallo Stato;
• le alternative e gli interventi socio-sanitari cui poter far ricorso.
Il medico deve valutare attentamente con la madre (e con il padre ove la donna acconsenta) le circostanze determinanti la scelta. Se ricorrono motivi di urgenza, al medico spetta rilasciare un certificato attestante l’urgenza stessa immediatamente; la donna può così subito presentarsi presso un centro autorizzato per sottoporsi all’intervento.
Se invece non ricorrono motivi di urgenza, la donna è invitata a soprassedere per sette giorni, è rilasciato documento attestante le generalità della donna, gravidanza, epoca gestazionale e richiesta di interruzione di gravidanza. Se non ha cambiato idea, trascorsi i 7 giorni la donna può recarsi presso un centro autorizzato per sottoporsi all’intervento. Lo Stato cerca di assumere una posizione di garanzia nei confronti sia della madre che del nascituro, in un ottica comunque di “prevenzione” dell’aborto.
All’art. 2 vengono definiti il ruolo e le funzioni dei Consultori Familiari (istituiti con L. n. 405/1975), che devono assistere la donna in gravidanza, informarla, e possono somministrare i mezzi per una procreazione responsabile anche ai minori (ad esempio pillola anticoncezionale). All’art. 14 è ascritto al medico il compito di informare ulteriormente la donna sulla procedura abortiva in ogni sua fase e sugli eventuali processi patologici presenti riscontrati (anche riguardanti il nascituro).
La donna deve essere seguita nel percorso decisionale, di modo che la scelta avvenga in maniera informata e consapevole, anche delle possibilità alternative all’aborto: il fine che si tenta di perseguire è, lo si ribadisce, dissuasivo.
Cosa prevede la normativa per l’interruzione della gravidanza entro i primi 90 giorni?
All’art. 4 della Legge 194 è previsto che “Per l’interruzione volontaria della gravidanza entro i primi novanta giorni, la donna che accusi circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione o al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche, o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito, si rivolge ad un consultorio pubblico istituito ai sensi dell’articolo 2, lettera a), della legge 29 luglio 1975 numero 405 (2), o a una struttura socio-sanitaria a ciò abilitata dalla Regione, o a un medico di sua fiducia”.
La decisione spetta esclusivamente alla donna, e presuppone quindi la volontarietà della scelta: se il consenso è estorto con violenza, minaccia ecc. si configura il delitto di aborto (Art. 18). La norma afferma che la gravidanza, il parto o la maternità devono poter rappresentare serio pericolo per la donna: purtroppo, ed è la realtà di oggigiorno, le circostanze addotte, ed accettate, per l’interruzione possono essere esclusivamente probabili e generiche, sebbene molto ampio sia il dibattito giurisprudenziale in materia. In effetti la condizione necessaria è il “serio pericolo per la salute fisica o psichica”.); della madre.
La legge comunque ha lo scopo della tutela sì della madre, ma anche della condizione di gravidanza e del parto, e pertanto del nascituro: ha fine comunque dissuasivo nei confronti del parto, e pertanto fornisce le indicazioni necessarie per il supporto alla donna e per fornirle l’ampia possibilità di scelta, soprattutto nel senso di soprassedere all’interruzione.
Quale normativa disciplina l’interruzione volontaria di gravidanza?
La legge che regolamenta l’interruzione volontaria di gravidanza è la Legge del 22 maggio 1978, n. 194, titolata: “Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza”. All’art. 1 si afferma: “Lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio. L’interruzione volontaria della gravidanza, di cui alla presente legge, non è mezzo per il controllo delle nascite. Lo Stato, le regioni e gli enti locali, nell’ambito delle proprie funzioni e competenze, promuovono e sviluppano i servizi socio-sanitari, nonché altre iniziative necessarie per evitare che l’aborto sia usato ai fini della limitazione delle nascite”.
La Legge 194 riconosce il valore sociale della maternità ed il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, ed inoltre riafferma, fermamente, la contrarietà giuridica del ricorso all’aborto come mezzo di controllo delle nascite.
Certamente la problematica fondamentale che si riscontra è data dal fatto che la legge si incentra sui diritti alla vita e alla salute della madre, che necessariamente devono confrontarsi con il diritto alla vita del concepito, comunque ribadito al primo comma del succitato articolo. Alla donna è riconosciuta la capacità di autodeterminazione nel poter disporre liberamente del proprio corpo, ma ciò certamente fermi restando i limiti stabiliti dall’articolo 5 del Codice Civile sugli “Atti di disposizione del proprio corpo”,.); che prevede che questi siano vietati ove cagionino una diminuzione permanente dell’integrità psicofisica della persona, oppure ove siano contrari alla legge, al buon costume o all’ordine pubblico.
Il sacrificio del concepito, la cui tutela la stessa legge proclama nel primo comma dell’art. 1, è consentito perché è considerata preminente la tutela della salute fisica o psichica della madre (Cass. 8.7.1994, n. 6464; Cass. 1.12.1998, n. 12195).
Quando si configura il dolo e quando la colpa?
Secondo l’art. 43 del Codice Penale: “Il delitto è doloso o secondo l’intenzione, quando l’evento dannoso o pericoloso, che è il risultato dell’azione od omissione e da cui la legge fa dipendere l’esistenza del delitto, è dall’agente preveduto e voluto come conseguenza della propria azione od omissione”; un delitto invece “è colposo, o contro l’intenzione, quando l’evento, anche se preveduto, non è voluto dall’agente e si verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline”. In riferimento all’operato del medico, secondo il Puccini “[…] la responsabilità colposa si ha quando il medico, per negligenza, imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline cagiona, senza volerlo, la morte o la lesione personale colposa del paziente”.
La mancanza di volontà differenzia l’elemento soggettivo della colpa dal dolo ed è caratterizzata dalla negligenza, imprudenza o imperizia, o dall’inosservanza di leggi, regolamenti, ordini e discipline. Secondo il Bilancetti: “Negligenza è sinonimo di trascuratezza, significa insufficienza di attenzione e ricorre in caso di scarso impegno, dimenticanza, svogliatezza, superficialità; imprudenza ha luogo in caso di avventatezza, eccessiva precipitazione, scarsa considerazione per gli interessi altrui; imperizia è deficienza di cultura professionale o di abilità tecnica o di esperienza specifica richieste invece per l’esercizio di determinate professioni”. I casi più tipici nei quali si sono evidenziati comportamenti negligenti sono così esemplificabili nell’assenza del medico nel periodo in cui è reperibile, con la conseguenza di reato di omissione in caso di chiamata; nella omissione per “trascuratezza” di necessarie indagini diagnostiche in relazione a sintomatologia equivoca. La negligenza dipende dalla superficialità del medico che dimentica o disattende le norme elementari della professione, seguendo le quali è possibile evitare un danno al paziente: tra le modalità di condotta colposa del medico, questa è la meno scusabile e il medico è chiamato a rispondere del danno provocato anche in caso di colpa lieve. La responsabilità professionale per negligenza grava indistintamente su ogni medico, a prescindere dal suo grado di preparazione e conoscenza scientifica: può avvenire per difetto di attenzione nell’esecuzione di un intervento o nell’effettuazione di una terapia, per mancata assistenza o sorveglianza del paziente o quando per leggerezza o superficialità si ometta di richiedere una consulenza specialistica o un accertamento diagnostico. È bene ricordare che oggi la negligenza va intesa anche come violazione di regole sociali e non solo come mera disattenzione (Cass. civ., Sez. III, 19 maggio 2004, n. 9471). Per ciò che concerne l’imprudenza, è ritenuto imprudente quel medico che, pur consapevole di non essere sufficientemente preparato dal punto di vista professionale, esegue comunque un certo tipo di intervento chirurgico; allo stesso modo è considerata imprudente la scelta di una terapia più rischiosa rispetto ad un’altra più sicura o anche l’affidamento di un paziente a un sanitario di non accertata capacità specifica. La condotta imprudente si concretizza quando non vengono previste le conseguenze del proprio operato e si agisce in modo inopportuno o intempestivo. È bene ricordare che oggi l’imprudenza va intesa anche come violazione delle modalità imposte dalle regole sociali per l’espletamento di certe attività (Cass. civ., Sez. III, 19 maggio 2004, n. 9471). Si sottolinea che Dottrina e Giurisprudenza individuano nella prevedibilità dell’evento dannoso il cardine della responsabilità per colpa. Qualora, nonostante il rispetto di tutte le regole comportamentali professionali, l’evento si verificasse, il medico non potrà essere accusato di condotta colposa “dato l’elevato margine di rischio” insito nell’attività medico-chirurgica.
Giova ricordare che oggi l’imprudenza va intesa anche come violazione delle regole tecniche di settori determinati della vita di relazione e non più solo come insufficiente attitudine all’esercizio di arti e professioni (Cass. civ., Sez. III, 19 maggio 2004, n. 9471). Nel quadro normativo esiste una disciplina discendente dalle disposizioni degli artt.1176 e 2236 del Codice Civile secondo la quale il medico risponde delle conseguenze del suo operato anche per colpa lieve qualora abbia agito con imperizia, imprudenza e/o negligenza in un caso ordinario. Limitatamente ai casi che presentino particolare difficoltà, invece, il medico risponde come sopra e solo in caso di colpa grave per imperizia. Si configura la responsabilità professionale del medico anche per colpa lieve quando il professionista medesimo non abbia posto in essere una prestazione diligente per fronteggiare un caso ordinario, ossia quando si sia trovato a prestare la propria opera non per risolvere problemi tecnici di speciale difficoltà, ma dovendo esercitare la sua professione al cospetto di casi ordinari per affrontare i quali si ritiene necessario, nonché doveroso e adeguato, il bagaglio tecnico del professionista medio appartenente al medesimo settore. La responsabilità del professionista sarà, per così dire, relegata alla colpa grave solo qualora il medesimo abbia dovuto affrontare problemi tecnici di speciale difficoltà e per imperizia abbia cagionato il danno. Non per negligenza o imprudenza, ritenendosi tali condotte degne delle valutazioni più severe e rigorose.
Che differenza c’è tra “responsabilità professionale” e “colpa professionale”?
Purtroppo spesso nel linguaggio comune, ma a volte anche per gli addetti ai lavori, l’espressione “responsabilità professionale” è, fallacemente, ritenuta sinonimo di “colpa professionale”. Molto interessante risulta, a nostro avviso, la seguente affermazione della psicologa Silvia Vegetti Finzi: “La parola responsabilità deriva dal latino “respondere” quindi “rispondere” che, a sua volta, deriva da “re-” indicante il ripetersi dell’azione in senso contrario, e “spondere”, “promettere” quindi “fare una contropromessa”, “promettere di rimando”. Responsabilità pertanto rappresenta la necessità di rispondere alle aspettative legate al proprio ruolo e l’impegno nel raggiungere gli obiettivi. Mi è sembrato un po’ poco, tanto più che nella mia mente, assai fantasiosa, girava un’altra etimologia che gli antichi avrebbero chiamato “varroniana”, vale a dire sbagliata, immaginaria, che collegava responsabilità con “res”, “le cose”, e con “pons, pondus” “il peso delle cose”. Mi ero fatta l’idea che volesse dire: “saper sopportare il peso delle cose”. Un’etimologia del tutto scorretta, che non ha nessun fondamento ma, a dispetto della linguistica, continua a sembrarmi più pregnante di quella del dizionario, così generica, così vaga da dimenticare il coinvolgimento del corpo, l’impegno anche fisico che la responsabilità richiede a chi l’esercita, così come trascura la dimensione sociale che l’attraversa”. La responsabilità professionale non si colloca né si esaurisce nell’errore medico, ma discende dalla valutazione della condotta professionale valutata globalmente, nella considerazione che l’operato del medico debba essere guidato da principi di beneficialità, non maleficialità, rispetto della dignità e della libertà personale e dei diritti dell’uomo in toto.
Il tema della responsabilità del medico sia sotto il profilo penale sia sotto il profilo civile assume quindi carattere rilevante e strategico anche per la comprensione dell’aumento costante del contenzioso nelle due sedi. Nel contesto giuridico italiano la responsabilità medica continua ad essere concepita essenzialmente in chiave di responsabilità personale e colpevole del singolo operatore sanitario, trascurando i concorrenti (e nella pratica assorbenti) profili di responsabilità degli enti, imprese e strutture sanitarie, ovvero, in materia di responsabilità medica, appartiene al comune sentire l’identificazione del singolo professionista con il soggetto chiamato a rispondere, in via pressoché esclusiva e per colpa, contrattuale o extracontrattuale, dei danni prodottisi in conseguenza dell’attività terapeutica o comunque in connessione con essa.
In realtà è chiaro ed evidente che la transizione dall’illecito alla responsabilità civile, e per effetto di questa dalla responsabilità per colpa alla responsabilità oggettiva (e dalla colpa “soggettiva” a quella “oggettivizzata”), che ha segnato l’andamento di buona parte della Dottrina e della Giurisprudenza italiana negli ultimi decenni, stenta ancora a trovare piena affermazione in specifici settori come, ad esempio, quello sanitario. Con la dicitura “responsabilità medica” si intende sottolineare che non si è in presenza di un semplice capitolo di una trattazione generale dedicata alla responsabilità del professionista ma che, di contro, si prende in considerazione un aspetto della tutela della salute dell’individuo in relazione ai pericoli connessi allo svolgimento di un trattamento sanitario 12.
Come possono essere classificati gli errori?
Una prima ripartizione suddivide gli errori in due categorie generali:
• gli errori commissivi, in cui rientrano tutti gli errori relativi all’esecuzione di atti medici o assistenziali praticati in modo scorretto;
• gli errori omissivi, cioè tutti quelli dovuti alla mancata esecuzione di atti medici o sanitari ritenuti, in base alle conoscenze e all’esperienza professionale, necessari per la cura del paziente.
James Reason, tra i primi studiosi delle teorie dell’errore e delle relative strategie, definisce:
• slips: errori di esecuzione legati alle abilità personali; sono sviste determinate ad esempio da distrazione, stanchezza, sovraccarico di lavoro, preoccupazioni ecc. Il soggetto sa come dovrebbe eseguire un compito, ma non lo fa, oppure inavvertitamente lo esegue in maniera non corretta (ad esempio, il paziente riferisce di un’allergia all’infermiere che si dimentica di riferirlo al medico);
• lapses: errori di esecuzione legati a fallimenti della memoria, omissioni di elementi pianificati, confusioni spaziali, oblio delle intenzioni (a differenza degli slips, i lapses non sono direttamente osservabili);
• mistakes: errori correlati alla pianificazione, conseguenti a giudizi e valutazioni sbagliati dai quali consegue una pianificazione delle azioni non adeguata al raggiungimento dell’obiettivo (rule based e knowledge based); si tratta di errori pregressi che si sviluppano durante i processi di pianificazione di strategie. In questi casi l’obiettivo non è raggiunto perché le tattiche e i mezzi attuati non lo permettono, o anche si è scelto di applicare una regola o una procedura che non consentono di conseguire quel determinato obiettivo. Sono errori che riguardano la conoscenza, a volte troppo scarsa, che porta a ideare percorsi d’azione che non permettono di raggiungere l’obiettivo prefissato. In questo caso è il piano stesso a essere sbagliato, nonostante le azioni compiute siano eseguite in modo corretto. In questa categoria rientrano tutti quelli dovuti all’organizzazione del lavoro, alla pianificazione della gestione delle emergenze, alla disponibilità e accessibilità delle attrezzature sanitarie e/o di supporto.
Non tutti gli errori producono danno. Un sistema di classificazione connesso a tale affermazione distingue infatti tra errori latenti (latent failure), cioè tutti gli sbagli che rimangono “silenti” nel sistema finché un evento scatenante (trigger event) non li renderà manifesti in tutta la loro potenzialità, causando danni più o meno gravi, e gli errori attivi (active failure), che provocano immediate conseguenze. L’incidente si realizza quando le azioni del singolo trovano pertugi nella sicurezza del sistema
Cosa sono la FMEA e la FMECA?
L’“analisi dei modi e degli effetti del guasto” (FMEA, Failure Mode and Effect Analysis) è un metodo qualitativo di analisi di fidatezza di tipo bottom-up, che è particolarmente adatto per lo studio dei guasti dei materiali, dei componenti e degli apparati e dei loro effetti sul livello funzionale superiore del sistema. L’“analisi dei modi, degli effetti e della loro criticità” (FMECA, Failure Mode and Critical Effect Analysis) estende la FMEA comprendendo l’analisi di criticità attraverso la valutazione quantitativa degli effetti del guasto in termini di probabilità di occorrenza e di gravità di ogni effetto. La gravità degli effetti è valutata facendo riferimento a una scala specifica. I fattori che possono essere considerati sono: una nuova tecnologia, nuovi processi, una progettazione innovativa o modifiche nell’ambiente, nei carichi o nelle regolamentazioni. Lo scopo è l’identificazione di tutti i modi di guasto singoli del sistema. I benefici sono dati dal fatto che vi è un’identificazione sistematica della relazione tra causa ed effetto, e fornisce un’indicazione iniziale di quali modi di guasto sono probabilmente critici, specialmente i guasti singoli che possono propagarsi. Inoltre il metodo identifica le conseguenze che sorgono da specifiche cause o quegli eventi iniziali che si ritiene siano importanti, e offre un approccio strutturato per l’identificazione delle azioni atte a mitigare i rischi. L’obiettivo è, ancora una volta, prevenire l’errore attivo.
Cosa si intende per audit clinico?
L’audit clinico può definirsi come una “iniziativa condotta da professionisti che cercano di migliorare la qualità e gli esiti dell’assistenza attraverso una revisione tra pari, strutturata, per mezzo della quale i professionisti esaminano la propria attività e i propri risultati a confronto con standard concordati e la modificano se necessario” (British Government, Department of Health, 1996). Oppure, utilizzando le definizioni ISO, come quell’“esame sistematico e indipendente mirato a stabilire se le attività svolte per la qualità e i risultati ottenuti sono in accordo con quanto stabilito e se quanto stabilito viene effettuato efficacemente e risulta idoneo al conseguimento degli obiettivi” (Norma ISO 8402 – Termini e definizioni, punto 4.9).
Che cos’è il rischio?
Il rischio esprime non solo la probabilità del verificarsi di un errore, ma anche il possibile danno per il paziente. Si intende una condizione o evento potenziale, intrinseco o estrinseco al processo, che può modificare l’esito atteso del processo stesso. Il rischio (R) rappresenta perciò la misura della potenzialità di danno di un generico evento pericoloso e viene espresso come prodotto tra la probabilità di accadimento di uno specifico evento (P) e la gravità del danno che ne consegue (D):
R = P X D
Nel calcolo del rischio può considerarsi anche la capacità del fattore umano di individuare in anticipo e contenere le conseguenze dell’evento potenzialmente dannoso (fattore K). La stima del livello di rischio può essere realizzata in termini sia quantitativi, attraverso dati probabilistici, di occorrenza dell’errore e del danno conseguente, sia qualitativi, sfruttando l’esperienza e il giudizio di tutto il personale sanitario.
Che valore riveste la segnalazione degli “eventi sentinella” in Ginecologia e Ostetricia?
L’OMS ha avviato nel 2004 il progetto World Alliance for Patient Safety (WAPS) , in risposta alla risoluzione dell’Assemblea Mondiale Sanitaria del 2002 nella quale si chiedeva agli Stati Membri e all’OMS di porre la massima attenzione al problema della sicurezza dei pazienti. Il WAPS ha individuato tra le priorità per i Sistemi Sanitari la promozione e lo sviluppo di politiche e pratiche sanitarie rivolte alla sicurezza dei pazienti, tra i quali figura l’istituzione di sistemi di segnalazione degli eventi avversi. L’Italia ha rapidamente recepito le indicazioni: nel 2005 il Ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche Sociali ha avviato un monitoraggio sperimentale degli eventi definiti come “sentinella”, tramite un protocollo di raccolta dati e analisi degli eventi. Lo scopo preposto era quello di giungere alla definizione di una modalità d’azione univoca e condivisa per una corretta e propositiva sorveglianza sul territorio nazionale. Il monitoraggio, esule da finalità statistico-epidemiologiche, ha lo scopo dell’analisi dei fattori e delle cause contribuenti al realizzarsi di taluni eventi, non prescindendo da un’accurata valutazione dei sistemi e dei processi posti alla base del sistema, e in modo da trarne dei vantaggi in termini di elaborazione e implementazione di linee guida e raccomandazioni specifiche che possano apportare miglioramenti sino all’eliminazione del problema.
Infatti secondo il 2° rapporto sul Protocollo di Monitoraggio degli eventi sentinella (relativo al periodo settembre 2005-agosto 2009) “L’orientamento del SSN è di offrire assistenza di alta qualità ed in condizioni di massima sicurezza e, pertanto, tra le funzioni del Ministero, assumono notevole rilievo l a valutazione ed il controllo dell’effettiva erogazione dei livelli essenziali di assistenza anche per gli aspetti della qualità e della sicurezza dei pazienti su tutto il territorio nazionale. In questo ambito nasce e si sviluppa il monitoraggio degli eventi sentinella che, attraverso l’analisi delle cause e dei fattori determinanti e contribuenti al verificarsi degli eventi, consente di imparare dagli errori e promuovere azioni preventive per contrastare il ripetersi di eventi analoghi”. Si ricorda che il protocollo di monitoraggio definisce evento sentinella: “un evento avverso, particolarmente grave, potenzialmente evitabile, che può comportare morte o grave danno al paziente e che determina una perdita di fiducia dei cittadini nei confronti del servizio sanitario. Il verificarsi di un solo caso è condizione sufficiente per dare luogo ad un’indagine conoscitiva diretta ad accertare se vi abbiano contribuito fattori eliminabili o riducibili e per attuare le adeguate misure correttive da parte dell’organizzazione”.
Il monitoraggio si basa su una categorizzazione di possibili eventi, nella quale, oltre alle categorie generiche riguardanti gli eventi correlati all’ambito chirurgico e al decesso del paziente cui certamente può ricondursi anche l’ambito ostetrico-ginecologico, specificamente si fa riferimento a questo ambito per due categorie:
• morte materna o malattia grave correlata al travaglio e/o parto;
• morte o disabilità permanente in neonato sano di peso >2500 grammi non correlata a malattia congenita..
Dai dati rilevati nel periodo 2005-2009 emerge che, in ambito prettamente ostetrico-ginecologico, su 385 schede di segnalazione pervenute, in 18 casi (4,7%) trattavasi di morte materna o grave danno alla madre correlato a travaglio e/o parto e in 25 (6,5% del totale) la morte o disabilità permanente in neonato sano di peso >2500 grammi non correlata a malattia congenita. La distribuzione di frequenza degli eventi sentinella per disciplina/area di assistenza mostra inoltre che l’Ostetricia e Ginecologia è l’area maggiormente interessata (57 casi, ovvero il 14,8% del totale). Dai dati sopra riportati si evince quale sia l’estrema utilità della segnalazione per i reparti ospedalieri di Ostetricia e Ginecologia: una corretta analisi degli eventi che arrivi alle cause degli stessi tramite la valutazione critica dei percorsi e dei sistemi è certamente il mezzo per la creazione di nuovi percorsi e linee guida che diminuiscano sino ad eliminare il problema o i problemi riscontrati, portando alla qualità ed eccellenza auspicabili nell’erogazione dei servizi sanitari. Un’analisi centrale rappresenta certamente l’optimum non solo dal punto di vista del controllo, anche economico-amministrativo, ma anche per la creazione, tramite il confronto e il dibattito tra le differenti realtà con le loro forse peculiari problematiche, di una omogeneità a livello nazionale che garantisca a tutti i cittadini i medesimi standard nei servizi prestati.
Cosa si intende per incident reporting?
L’incident reporting è la segnalazione spontanea e volontaria degli eventi avversi e dei problemi organizzativi. I professionisti che si trovano coinvolti in un incidente possono porre il caso all’attenzione tramite un’apposita scheda di segnalazione, collocata all’interno del sistema informativo aziendale: le segnalazioni archiviate costituiscono una base dati che può essere utilizzata come fonte per mappare e analizzare i possibili rischi all’interno della struttura sanitaria. La “segnalazione spontanea” è certamente una nuova fonte di identificazione degli stessi; può essere definita come “una modalità di raccolta di segnalazioni in modo strutturato di eventi (in primo luogo near miss e incidenti) allo scopo di fornire una base di analisi, predisposizione di strategie e azioni di correzione e miglioramento per prevenire il riaccadimento futuro” (ASR Emilia Romagna, 2003). Il reporting volontario inoltre ha i vantaggi di permettere l’individuazione di tipi di eventi con bassa frequenza d’accadimento, non usuali ed emergenti, di correlare gli eventi all’organizzazione delle U.O. e dell’intera struttura ospedaliera, e inoltre di poter leggere in maniera sistemica un singolo evento e poter agire rapidamente. Ogni report diviene quindi narrazione a sé stante, che fornisce informazioni ancor più dettagliate sullo stato di salute del sistema. Inoltre il reporting volontario è certamente un mezzo per mantenere alta l’attenzione degli operatori, ma non solamente: anche per far sì che gli stessi partecipino attivamente alla gestione del rischio. Ovviamente ciò in un’ottica “no blame”; ovvero volontaria, non punitiva e confidenziale.
Qual è lo stato dell’arte in Italia circa il Risk Management?
In Italia, a differenza che in altri paesi europei ed extraeuropei, il Risk Management in sanità in ambito ospedaliero è ancora considerato un’innovazione, e sono solo degli ultimi anni le introduzioni e le indicazioni a livello nazionale prodotte in materia. Il Ministero della Salute nel 2003 ha istituito la Commissione Tecnica sul Rischio Clinico (D.M. 5 marzo 2003); nel documento “Risk Management in Sanità. Il problema degli errori” 6 afferma: “Il risk management in sanità rappresenta l’insieme di varie azioni complesse messe in atto per migliorare la qualità delle prestazioni sanitarie e garantire la sicurezza del paziente, sicurezza basata sull’apprendere dall’errore. Dobbiamo, infatti, considerare l’errore, componente ineliminabile della realtà umana, come fonte di conoscenza e miglioramento per evitare il ripetersi delle circostanza che hanno portato l’individuo a sbagliare e mettere in atto iniziative, a vari livelli istituzionali garanti dell’assistenza sanitaria (Aziende Sanitarie, Regioni, Ministero della Salute), che riducano l’incidenza di errori. Il Risk Management, perché sia efficace, deve interessare tutte le aree in cui l’errore si può manifestare durante il percorso clinico assistenziale del paziente: solo una gestione integrata del rischio può portare a cambiamenti nella pratica clinica, promuovere la crescita di una cultura della salute più attenta e vicina al paziente e agli operatori, contribuire indirettamente a una diminuzione dei costi delle prestazioni e, infine, favorire la destinazione di risorse su interventi tesi a sviluppare organizzazioni e strutture sanitarie sicure ed efficienti”. La figura del Risk Manager è stata formalizzata come responsabile di Unità Operativa Ospedaliera negli ospedali coinvolti nella realizzazione delle Unità di Gestione del Rischio: queste ultime in Italia risultano attive, al 2004, nel 28% delle strutture sanitarie del Sistema Sanitario Nazionale (91 strutture su 323 rispondenti – periodo 2003-2004). 7 Molte regioni italiane hanno incluso il tema del Risk Management negli indirizzi di programmazione dotandosi di specifici piani attuativi; a livello di singole aziende sanitarie sono state costitute sia unità di gestione del rischio clinico sia gruppi interdisciplinari e multiprofessionali preposti al coordinamento delle attività di identificazione del rischio clinico e all’analisi e programmazione di interventi migliorativi. Anche alcune società scientifiche e ordini professionali hanno elaborato proprie politiche e strategie per la diffusione di conoscenze e di strumenti e hanno avviato interventi formativi.
Cos’è il Risk Management?
Risk Management significa, letteralmente, “Gestione del Rischio”, dove per rischio è intesa la probabilità di accadimento di tutti quegli eventi che possono comportare perdite o danni per l’azienda e le persone coinvolte (ad esempio danni alle strutture, danni alle persone fisiche, danni economici o di immagine). Il Risk Management si articola in una serie di attività:
• conoscenza e analisi dell’errore (sistemi di report, revisione delle cartelle, utilizzo);
• individuazione e correzione delle cause di errore (root causes analisys – RCA, analisi di processo, failure mode and effect analisys – FMEA);
• monitoraggio delle misure messe in atto per la prevenzione dell’errore;
• implementazione e sostegno attivo delle azioni proposte.
Tali attività possono essere raggruppate in sei macro fasi:
• identificazione dei rischi;
• valutazione dei rischi;
• scelta delle tecniche di gestione;
• realizzazione delle tecniche di gestione;
• monitoraggio;
• aggiornamento.
Il Risk Management può essere perciò definito come sistema fondato su una metodologia logica e sistematica che consente, attraverso step successivi, di identificare, analizzare, valutare, comunicare, monitorare, ridurre sino ad eliminare i rischi associati a qualsiasi attività.
Cosa si intende per Clinical Governance?
Con “Clinical Governance” si intende “un approccio integrato per l’ammodernamento del Sistema Sanitario Nazionale, che pone al centro della programmazione e gestione dei servizi sanitari i bisogni dei cittadini e valorizza il ruolo e la responsabilità dei medici e degli altri operatori sanitari per la promozione della qualità”.
La Clinical Governance rappresenta lo strumento con il quale si vuole tendere, attraverso diversi fattori e per mezzo di differenti figure professionali, alla cultura dell’eccellenza, sia rispetto alla valutazione degli outcome, alla valutazione clinica e dei bisogni assistenziali, sia rispetto agli standard dell’evidence based medicine., non dimenticando di testare qual è la concreta soddisfazione dei nostri stakeholders, cioè degli utenti intesi in senso ampio ovvero non considerando esclusivamente i pazienti. Questo perché è ormai assodata l’idea che la sicurezza dei pazienti sia correlata anche con la sicurezza degli operatori che, pertanto, devono poter contare su un’organizzazione efficiente ed efficace e su una managerialità integrata a più livelli.
Le strutture sanitarie risultano, quindi, sistemi ad elevata complessità, per le quali si rende necessario un “governo” che possa mediare tra i molteplici fattori, eterogenei e dinamici, che le caratterizzano e i molteplici attori che in esse interagiscono. Hanno infatti particolare rilevanza le specificità dei singoli pazienti, l’elevata specializzazione degli interventi diagnostico-terapeutici, la coesistenza di esperienze multi-professionali e la presenza di modelli organizzativi e gestionali differenti. Data la complessità del sistema, l’errore e la possibilità di un incidente non sono del tutto eliminabili 3, ma certamente possono attuarsi interventi tali per cui risultino controllabili al fine di ridurre al minimo i possibili danni per i pazienti. Da ciò la necessità di creare e promuovere misure che rendano difficile il verificarsi dell’errore e di attuare le misure per limitarne gli effetti. Nel nostro paese l’attenzione rispetto alla Clinical Governance è elevata: nel Piano Sanitario Nazionale 2006-2008 (principale strumento di pianificazione a livello statale del Servizio Sanitario Nazionale) si afferma che “Il governo clinico (o governo della qualità clinica) è il “cuore” delle organizzazioni sanitarie nell’ospedale: il controllo dei costi e degli aspetti finanziari dovrebbe essere, almeno per larga parte, conseguenza del suo esercizio, giacché non è sensato porsi un obiettivo di efficienza se non vi è innanzitutto garanzia di qualità. […]
L’obiettivo fondamentale dei programmi di miglioramento della qualità è che ogni paziente riceva quella prestazione che produca il miglior esito possibile in base alle conoscenze disponibili, che comporti il minor rischio di danni conseguenti al trattamento con il minor consumo di risorse, e con la massima soddisfazione per il paziente. Da ciò deriva la definizione delle caratteristiche di un sistema sanitario ideale a cui tendere: sicurezza, efficacia, centralità del paziente, tempestività delle prestazioni, efficienza ed equità. Pertanto, il miglioramento della qualità richiede un approccio di sistema in un modello di sviluppo complessivo che comprenda i pazienti, i professionisti e l’organizzazione: la logica sottostante a tale nuovo concetto è quella della programmazione, gestione e valutazione del ‘sistema’ in forma mirata all’erogazione di prestazioni cliniche per la tutela della salute della popolazione”.; L’importanza della materia è ribadita nel documento preliminare informativo al Piano Sanitario Nazionale 2010-2012, ove si afferma che “vanno implementati gli strumenti del governo clinico tramite l’integrazione dei suoi numerosi determinanti, dando seguito, in particolare, a quanto stabilito con l’accordo Stato regioni del 20 marzo 2008 in tema di gestione del rischio clinico e della sicurezza dei pazienti e delle cure”. Un corretto governo clinico deve obbligatoriamente passare attraverso un approccio di “sistema”, e non prettamente “personale” (ovvero tramite la colpevolizzazione del singolo), in un modello di sviluppo complessivo che comprenda i pazienti, i professionisti e l’organizzazione, e che ponga l’attenzione sulle condizioni di lavoro degli operatori, e cerchi di costruire barriere per evitare gli errori o limitarne gli effetti.
Tale approccio deve necessariamente comprendere: la formazione continua; la gestione del rischio clinico (Risk Management); gli audit clinici; la medicina basata sull’evidenza (EBM ed EBHC); le linee guida cliniche e i percorsi assistenziali; la gestione dei reclami; la gestione dei contenziosi; la comunicazione; la gestione della documentazione; la ricerca e lo sviluppo; la valutazione degli esiti; l’informazione corretta e trasparente. Certamente è richiesta una collaborazione multidisciplinare, non solo tra gli addetti ai lavori ma che comprenda anche il coinvolgimento dei pazienti.
Afferma infatti Franco Perraro, il padre della VRQ (Società Scientifica di Valutazione e Revisione della Qualità): “progettare e implementare un sistema assistenziale è una responsabilità manageriale che si può fare solo con la conoscenza clinica e il coinvolgimento dei medici e dei sanitari”. Il governo clinico può quindi definirsi come un nuovo modo di assicurare che dal Sistema Sanitario siano forniti elevati standard della pratica clinica e che la qualità del servizio sia continuamente migliorata.
Quando è indicata e quali sono le possibili problematiche nella chirurgia in day surgery in ambito ostetrico-ginecologico?
La day surgery, ovvero “l’effettuazione, con opportune modalità cliniche, organizzative ed amministrative di interventi chirurgici o anche di procedure diagnostiche e/o terapeutiche invasive e seminvasive in regime di ricovero limitato alle sole ore di giorno, o con eventuale pernottamento (one day surgery), in anestesia locale, loco-regionale, generale. I criteri per la day surgery sono:
1) l’intervento deve essere completato in un tempo breve (tempi di esecuzione inferiori ai 60 minuti);
2) la paziente non ha patologie concomitanti (ASA 1 e ASA 2 e solo in casi selezionati dall’anestesista ASA 3);
3) la paziente vive non lontano da un ospedale;
4) può essere accompagnata con un’auto in caso di necessità;
5) la paziente e i parenti desiderano un intervento in day surgery”.
I numeri della day surgery sono oggi, nel nostro paese, certamente elevati: nel 2007 di circa 4 milioni e 600 mila pazienti dimessi a seguito di interventi o procedure chirurgiche, poco più di 1 milione e 600 mila sono stati seguiti in regime di day surgery. In Ostetricia e Ginecologia le indicazioni per la day surgery sono molteplici, sia per interventi in anestesia generale sia per quelli in anestesia locale. Ciò si è realizzato grazie al notevole aumento delle possibilità tecniche e tecnologiche connesse alla chirurgia, con tecniche sempre meno invasive, e alle metodiche anestesiologiche, gravate da minori rischi. Una delle positività della possibilità dell’effettuazione di procedure in regime di day hospital o di one day surgery risiede nella riduzione dei tempi di ospedalizzazione e dei costi conseguenti, oltre che nello snellimento gestionale e amministrativo, nella migliore razionalizzazione delle risorse e nella riduzione delle liste di attesa. Tramite un’adeguata gestione delle pazienti e per mezzo di un’efficiente organizzazione può erogarsi un’assistenza efficace anche dal punto di vista psicologico e sociale dell’assistito, che vede ridotto il suo tempo di inabilità. Nella chirurgia ginecologica, l’assistenza in regime di day surgery è finalizzata, come detto, all’esecuzione di una molteplicità di interventi: raschiamenti dell’utero diagnostici e/o terapeutici; raschiamenti aspirativi a seguito di interruzioni di gravidanza o aborti; polipectomie e asportazione di piccoli miomi; biopsie mirate del corpo uterino; svuotamento di cisti di Naboth; biopsie della portio; asportazione cisti del Bartolini; colpotomie e cistopessi; condilomi e papillomi per via vaginale; plastiche vaginali e vulvari; ovariotomie laparoscopiche; biopsie ovariche; marsupializzazione di cisti ovariche; conizzazioni e vaporizzazioni laser della cervice; salpingectomie ecc. Del tutto recentemente è diventato possibile effettuare in detto regime anche gli interventi di fertiloscopia: in questo ambito i vantaggi per le pazienti risultano evidenti anche dal punto di vista psicologico. In ogni caso, la scelta di degenza in day surgery è effettuata in elezione e per casi che comportino un basso livello di difficoltà, ovvero per situazioni che possano essere trattate routinariamente con minime probabilità di errore; i casi provenienti dal Pronto Soccorso, trattati in tale regime, sono per definizione quelli che possono essere classificati come “minori”, e pertanto anch’essi comportanti un rischio minimo. Ma il rischio non è certamente escluso: certamente il paziente trattato in day surgery avrà, per definizione, una minore tutela per ciò che concerne le fasi post-operatorie, ovvero per il rischio di complicanze e di diagnosi e trattamento intempestivo delle stesse. Se il rischio operatorio è certamente assimilabile a quello che si ha per interventi chirurgici effettuati in regime ordinario, la complicanza post-operatoria può invece prospettare grave danno al paziente per l’assenza di una qualificata e specialistica assistenza post-operatoria e, perciò, la possibilità, tutt’altro che infrequente, della tardività della diagnosi. La fase di degenza al domicilio andrà, pertanto, accuratamente valutata e programmata, informando e rendendo partecipe e consapevole il paziente dei rischi connessi a un inidoneo comportamento successivo all’intervento. Altresì andranno attentamente programmati i successivi controlli ambulatoriali, come andrà redatta una corretta lettera di dimissione recante ogni precisa e necessaria informazione, anche in vista di un possibile coinvolgimento del medico di base della paziente. In ogni caso, la maggiore accortezza dovrà porsi nelle valutazioni pre-operatorie: andranno identificati e valutati i possibili fattori di rischio, siano essi specifici o generici, perché ciò permetterà di ridurre al minimo ogni possibile evenienza di complicanza oltre a indicare la correttezza della scelta effettuata riguardo la tipologia di degenza.
CONGRESSI E CORSI
Qui sono raccolti i principali congressi e corsi nelle aree di maggiore interesse sulla salute della donna.