Contraccezione

La Corte d’Appello di Firenze, 14 maggio 2009, non ha accolto la domanda risarcitoria, in considerazione della mancanza di una prova certa della riconducibilità del subito intervento abortivo alla paura ingenerata dall’assunzione del farmaco teratogeno. Nel caso di specie, esiste, invece, la prova documentale oggettiva (richiesta 14.11.1994 del medico curante, sottoscritta anche dalla paziente ed allegata alla cartella clinica) che la sottoposizione ad intervento abortivo è dipesa da motivi del tutto diversi, e cioè da ragioni socio-economiche.

Il concepito, pur non avendo una piena capacità giuridica, è comunque un soggetto di diritto, perché titolare di molteplici interessi personali riconosciuti dall’ordinamento sia nazionale sia sovranazionale, quali il diritto alla vita, alla salute, all’onore, all’identità personale, a nascere sano, diritti, questi, rispetto ai quali l’avverarsi della condicio iuris della nascita è condizione imprescindibile per la loro azionabilità in giudizio ai fini risarcitori. Ne consegue che la persona nata con malformazioni congenite, dovute alla colposa somministrazione di farmaci dannosi alla propria madre, durante la gestazione, è legittimata a domandare il risarcimento del danno alla salute nei confronti del medico che quei farmaci prescrisse o non sconsigliò (Cass. civ., Sez. III, 11 maggio 2009, n. 10741).

Il sanitario curante che accerti l’esistenza, a carico della gestante, di una patologia tale da poter determinare l’insorgenza di gravi malformazioni a carico del nascituro, è tenuto ad informare la donna di tale situazione e della possibilità di svolgere indagini prenatali, benché rischiose per la sopravvivenza del feto, onde consentire l’esercizio della facoltà di procedere all’interruzione della gravidanza. Nel caso, peraltro, siano decorsi più di novanta giorni dall’inizio della gravidanza, per ottenere il risarcimento del danno conseguente alla violazione di tale diritto, la donna è tenuta a dimostrare – con riguardo alla sua concreta situazione e secondo la regola causale del “più probabile che non” – che l’accertamento dell’esistenza di rilevanti anomalie o malformazioni del feto avrebbe generato uno stato patologico tale da mettere in pericolo la sua salute fisica o psichica (Cass. civ., Sez. III, 2 febbraio 2010, n. 2354).

Sì, in quanto la mancata interruzione della gravidanza, determinata dall’inadempimento colpevole del sanitario, è causa di danno non solo per la madre ma anche per il padre, atteso il complesso di diritti e doveri che, secondo l’ordinamento, si incentrano sul fatto della procreazione. Anche il padre deve perciò considerarsi tra i soggetti “protetti” dal contratto col medico e, quindi, tra coloro rispetto ai quali la prestazione mancata o inesatta è qualificabile come inadempimento, con il correlato diritto al risarcimento dei conseguenti danni, immediati e diretti (Cass. civ., Sez. III, 20 ottobre 2005, n. 20320; Cass. civ., Sez. III, 4 gennaio 2010, n. 13). Il padre non ha titolo per intervenire sulla decisione di interrompere la gravidanza, ai sensi della legge 194 del 1978, ma diversa questione è quella relativa al danno che il padre del nascituro potrebbe subire perché altri hanno impedito alla madre di esercitare il diritto di interruzione della gravidanza, che essa (e solo essa) legittimamente poteva esercitare. Poiché si tratta di contratto di prestazione di opera professionale con effetti protettivi anche nei confronti del padre del concepito che, per effetto dell’attività professionale ostetrico-ginecologico, diventa o non diventa padre (o diventa padre di un bambino anormale), il danno provocato da inadempimento del sanitario costituisce una conseguenza immediata e diretta anche nei suoi confronti e, come tale, è risarcibile a norma dell’art. 1223 c.c. (Cass. civ., Sez. III, 4 gennaio 2010 n. 13).

Il caso è stato affrontato anche in altri ambiti medici ed ha trovato identiche soluzioni. In ginecologia, la Cassazione, Sez. IV, 28 giugno 1996, sentenza n. 7363, ha esaminato il caso di una donna ricoverata in una struttura sanitaria a seguito di un incidente stradale nel quale aveva riportato diverse fratture. Insorta una grave forma di sepsi che interessava la fossa ischio-rettale destra e la regione pelvica con lacerazione della parete laterale vaginale, il primario di ginecologia, coadiuvato dall’assistente, procedeva alla suturazione di una fistola vaginale senza che l’infezione fosse stata eliminata perché la sutura si era subito lacerata. La donna, quindi, decedeva. Il dato normativo di partenza è costituito dall’art. 63 del D.P.R. 20 dicembre 1979 n. 761 (stato giuridico del personale delle unità sanitarie locali). In base a tale norma (comma 30) il medico appartenente alla posizione iniziale (l’assistente ospedaliero appunto) “ha la responsabilità per le attività professionali a lui direttamente affidate e per le istruzioni e direttive impartite nonché per i risultati conseguiti. La sua attività è soggetta a controllo e gode di autonomia vincolata alle direttive ricevute”. Il medico appartenente alla posizione apicale (primario), precisa poi il medesimo articolo: “esercita funzioni di indirizzo e di verifica sulle prestazioni di diagnosi e cura, nel rispetto dell’autonomia professionale operativa del personale dell’unità assegnatagli, impartendo all’uopo istruzioni e direttive ed esercitando la verifica inerente all’attuazione di esse” (comma 5 ); “assegna a sé e agli altri medici i pazienti ricoverati e può avocare casi alla sua diretta responsabilità, fermo restando l’obbligo di collaborazione da parte del personale appartenente alle altre posizioni funzionali” (comma 6). La prima considerazione da fare, nella ricostruzione di questo complesso sistema, è – prosegue la Cassazione – che la normativa in esame non configura affatto la posizione dell’assistente come quella di un mero esecutore di ordini. Questa conclusione si trae chiaramente dalla prima norma richiamata – nella parte in cui fa riferimento alla responsabilità per le attività professionali a lui direttamente affidate – e, in negativo, dalla seconda e terza laddove per un verso prevede che il primario debba rispettare l’autonomia professionale operativa del personale dell’unità assegnatagli; per altro verso consente al primario di avocare il caso alla sua diretta responsabilità (evidentemente sottraendolo alla responsabilità del medico appartenente ad una posizione inferiore). Quando la norma in esame parla di “autonomia vincolata alle direttive ricevute”, non intende quindi riferirsi ad una subordinazione gerarchica, che non consente scelte diverse (questa semmai è la posizione del personale paramedico che è obbligato a somministrare i trattamenti terapeutici disposti dal personale medico), ma ad una autonomia limitata dalla possibilità, prevista per il medico in posizione superiore, di imporre le proprie scelte terapeutiche quando esse contrastino con quelle del medico cui è assegnato il caso. Se, dunque, primario e assistente condividono le scelte terapeutiche, entrambi ne assumono la responsabilità. Del resto questa ricostruzione è connaturata alle caratteristiche della scienza medica (come a quelle di qualsiasi altra scienza che comporti la soluzione di complessi problemi spesso con elevati livelli di discrezionalità tecnica), non essendo accettabile che la tutela della salute umana possa essere ricollegata a scelte discrezionali (o ad omissioni) incensurabili. Ed è connaturata anche alla dignità professionale del medico che, sia pure inserito nella posizione iniziale, vedrebbe svilita la sua posizione nell’ambito ospedaliero da un’interpretazione che lo riducesse ad un mero esecutore di ordini. Il problema si presenta di meno agevole soluzione nel caso in cui l’assistente (o l’aiuto) non condivida le scelte terapeutiche del primario che non eserciti il suo potere di avocazione. In questo caso il medico in posizione inferiore, che ritenga che il trattamento terapeutico disposto dal superiore comporti un rischio per il paziente, è tenuto a segnalare quanto rientra nelle sue conoscenze, esprimendo il proprio dissenso con le scelte dei medici in posizione superiore (Cass., Sez. IV, 28 giugno 1996, Cortellaro); diversamente egli potrà essere ritenuto responsabile dell’esito negativo del trattamento terapeutico non avendo compiuto quanto in suo potere per impedire l’evento (art. 40 comma 2 c.p.). Ma nel caso in esame, la problematica cui si è fatto cenno non viene presa in considerazione. I giudici di merito hanno, infatti, accertato in modo definitivo – e questo accertamento non è censurabile in questa sede ma neppure è stato contestato dal ricorrente – che il caso era stato affidato dal primario al dott. C.; che il dott. Z. e il dott. C. hanno sempre condiviso le scelte terapeutiche; che il primario mai ha avocato il caso alla sua diretta responsabilità; che mai il dott. C. ha espresso (al primario o ad altri) critiche o perplessità sui trattamenti sanitari praticati (e neppure ne ha suggeriti, come era ben possibile, di diversi). Del resto la più parte dei comportamenti colposi contestati agli imputati riguardano fatti omissivi e, almeno per quanto riguarda gli interventi di minor rilievo (ad esempio l’esecuzione dell’antibiogramma e la prescrizione di un regime dietetico particolare, se non l’intervento chirurgico di revisione), non si vede quale ostacolo vi fosse ad una autonoma determinazione da parte dell’assistente, anche se nessuna direttiva in proposito era stata impartita dal primario, trattandosi di mere integrazioni del trattamento sanitario concordato con il primario.

Il Tribunale di Padova aveva affermato la responsabilità di B.L. in ordine al reato di cui all’art. 589 c.p. in danno di R.S., e lo ha altresì condannato al risarcimento del danno nei confronti delle parti civili. Il primo giudice, all’esito di un’istruttoria dibattimentale che ha comportato l’esame di diversi consulenti e lo svolgimento di una perizia affidata ad un qualificato professionista, ha ritenuto di ravvisare nella condotta dell’imputato un addebito colposo eziologicamente rilevante rispetto all’evento letale. La pronunzia recepisce le valutazioni espresse dal perito: il trattamento radiante per morbo di Hodgkin costituisce fattore di rischio di cancro alla mammella; già nel (OMISSIS) sarebbe stato indicato effettuare indagini strumentali sul nodulo senza affidarsi alla sensibilità palpatoria. La Corte d’Appello di Venezia ha invece adottato pronunzia assolutoria perché il fatto non sussiste. La Corte di Cassazione, Sez. IV penale, in data 4.2.2010, con sentenza n. 8635, ha ritenuto che il giudice di seconde cure non avesse motivato le ragioni a sostegno della pronuncia assolutoria, ritenuta apodittica e, quindi, ha cassato con rinvio ad altro giudice d’appello.

I giudici di primo e secondo grado hanno affermato la responsabilità del sanitario il quale, in particolare, era accusato di avere per colpa, consistita in negligenza, imprudenza ed imperizia, trascurato i disturbi lamentati dalla paziente caratterizzati da perdite ematiche irregolari, dolore e gonfiore addominale, di essersi limitato a somministrare farmaci antinfiammatori e a prescrivere esami ematochimici, omettendo di disporre esami strumentali obiettivi (quali l’ecografia pelvica ed altri accertamenti diagnostici) che avrebbero consentito di accertare il tumore maligno in epoca precedente a quanto avvenuto in concreto. In tal modo, il medico aveva concorso a cagionare la morte della paziente. Il Tribunale di Torre Annunziata condannava il ginecologo a 6 mesi di reclusione e a risarcire, in via provvisoria, i parenti della paziente deceduta nella misura di € 13.000,00, salvo le ulteriori somme da richiedersi in separato giudizio civile. La Corte d’Appello di Napoli ha confermato detta sentenza di condanna. La Corte di Cassazione, con sentenza n. 10824, in data 29 gennaio 2008, invece, annullava, con rinvio ad altro giudice d’appello, perché venisse approfondita l’analisi del nesso di causa, omessa sin dalla decisione del giudice di prime cure.

Sì, l’Azienda Ospedaliera è stata condannata dal Tribunale di Roma al pagamento, in favore del ginecologo, della somma complessiva di € 141.835,00 oltre interessi legali e spese legali e, proposto appello avverso detta decisione, detta somma veniva innalzata a complessivi € 202.521,52, oltre al pagamento delle spese legali relative al giudizio di secondo grado.


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