Femminicidio: i partner colpevoli di un terzo dei casi di violenza sulle donne

La rivista The Lancet ha pubblicato uno studio di revisione sulla letteratura relativa ai crimini contro le donne compiuti in 66 paesi del mondo, da cui risulta che la colpa, in oltre un terzo dei casi, è da attribuire ai loro partner; le cifre sono il frutto di una ricerca commissionata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, che è stata diretta da Heidi Stöckl, del Dipartimento di Epidemiologia Sociale e Matematica della London School of Hygiene & Tropical Medicine, che ha coordinato un team di ricercatori della McMaster University di Hamilton, Ontario, del South African Medical Research Council, e della Johns Hopkins University, di Baltimora.

Spiegano gli studiosi: «I dati sono stati ottenuti in 66 paesi; complessivamente, il 13,5% degli omicidi risulta essere stato commesso dal partner intimo, e questa proporzione è risultata essere sei volte più elevata per gli omicidi con vittime femminili rispetto agli omicidi con vittime maschili (38,6% rispetto e 6,3%). Le correzioni, fatte per tenere conto dei casi in cui la relazione fra vittima e autore del crimine non è nota, in generale fanno salire la prevalenza, suggerendo che i dati presentati siano prudenti.
In sostanza, almeno un omicidio su sette nel mondo e oltre un terzo degli omicidi con vittime femminili, sono commessi dal partner intimo, e questa violenza, di norma, rappresenta il culmine di una lunga storia di abusi. I nostri risultati sottolineano che le donne sono sproporzionatamente vulnerabili alla violenza, e che i loro diritti sono trascurati da troppo tempo. È necessario aumentare gli investimenti per la prevenzione della violenza del partner, sostenere le donne che denunciano la violenza domestica, e proibire il possesso di armi agli individui che hanno una storia di violenza».

Non è semplice raccogliere i dati sulla percentuale di omicidi commessi dai partner, perché i dati di partenza su cui fare i calcoli hanno una qualità variabile, dipendendo da quelli, spesso disomogenei, forniti dalla polizia e dagli obitori, e perché di solito non sono registrati i rapporti fra la vittima e il suo assassino, benché questo sia un elemento fondamentale per la prevenzione degli atti di violenza.
A proposito della necessità che i dati siano omogenei, Rosana Norman, ricercatrice dell’australiana University of Queensland, precisa nell’editoriale: «La ricerca sulle complesse questioni relative alle relazioni intime, può essere intrapresa solo su dati affidabili, raccolti in modo sistematico; sono dunque auspicabili in ogni paese miglioramenti in questo senso, in quanto attualmente la disponibilità e la qualità dei dati variano molto da una regione all’altra».
L’articolo di The Lancet è uscito a ridosso dell’approvazione da parte del Senato Italiano, all’unanimità e in via definitiva, della ratifica della Convenzione di Istanbul sulla prevenzione della violenza sulle donne e contro la violenza domestica.
Alla base della Convenzione ci sono quattro principi, riassunti in altrettante ‘P’: Prevenire, Proteggere e aiutare le vittime, Perseguire i colpevoli, Politiche integrate. Per questo, secondo la Convenzione, è necessario sancire nuovi reati che puniscano: la ‘violenza contro le donne’ (come reato contro i diritti umani commesso attraverso ogni tipo di attività violenta, anche solo minacciata, in pubblico o in privato); la ‘violenza domestica’ (ogni atto di natura violenta fisico, sessuale, psicologico o economico, che si verifichi all’interno della famiglia, o fra chi un tempo costituiva un nucleo familiare, anche non convivente); la ‘violenza di genere contro le donne’ (ogni atto violento diretto contro una donna perché donna).
La Convenzione di Istanbul è stata sottoscritta da 28 paesi e ratificata da cinque (Italia, Albania, Montenegro, Portogallo, Turchia), ma perché diventi realtà per tutti gli stati che l’hanno sottoscritta, mancano ancora le firme di altri cinque stati, pena l’inefficacia della Convenzione: gli stati firmatari devono infatti essere dieci, otto dei quali devono far parte del Consiglio d’Europa. 

 

Fonte
The Lancet – Editorial, 22-28 giugno 2013

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